Il modello economico/finanziario per come lo abbiamo conosciuto fino allo scorso anno è cambiato. E cambia ogni giorno. Non è dato sapere quando e come verrà ritrovato un nuovo equilibrio, una nuova forma di stabilità. Quello che invece possiamo fare è apprezzare gli effetti che questi cambiamenti stanno riversando sulle attività produttive e di servizio: necessità di riorganizzazione, di riduzione dei costi, di aumento delle efficienze ecc.

Nella stragrande maggioranza dei casi l’elemento cardine su cui le aziende fanno leva per cercare di tenere in ordine i propri conti è la pura e semplice riduzione dei costi con inevitabili ripercussioni sull’occupazione in genere. Lo sentiamo dalle notizie, lo vediamo nelle manifestazioni di piazza, lo vediamo magari anche in amici e conoscenti che hanno perso il posto di lavoro. Non ho titolo per giudicare l’operato delle imprese e le loro scelte strategiche. Mi limito solo ad osservare, da esterno e da fornitore di molte di esse per il settore IT, che troppo spesso si attribuisce ai problemi di “cassa” (finanziari) una rilevanza massima e pertanto si cerca di ovviare ad essi riducendo le “uscite” nel breve periodo, tagliando spese correnti (come gli stipendi) o stoppando progetti di innovazione che vengono rimandati ad un indeterminato futuro : “quando avremo soldi”.

Ripeto, se di soldi non ce ne sono, non ce ne sono. Punto. E credo che ogni imprenditore abbia il diritto di scegliere quale strada seguire per cercare di raddrizzare o risollevare le sorti di una attività della quale si assume il rischio. Sempre che, ovviamente, operi nell’ambito della legalità e del rispetto della dignità e del valore delle persone che, volenti o nolenti, sono parte integrante e fondante del successo di una azienda.

Ma non c’è solo la riduzione dei costi nuda e cruda da prendere in considerazione. E’ necessario valutare, con coraggio e senza pregiudizi, possibili modifiche al proprio modo di lavorare, di fare impresa, di “gestire” l’impresa. Le imprese italiane “sfornano” ottimi prodotti, erogano eccellenti servizi, sono all’avanguardia nello sviluppo. Ma sono poco “flessibili” e scarsamente inclini al cambiamento. La flessibilità non deve essere intesa solo nell’accezione di riferimento al lavoro subordinato (prendo e lascio secondo necessità): deve avere anche una forte impronta sul modo in cui vengono gestiti i processi interni. In questo ambito i settori IT tradizionali sono molto “ingessati” e non riescono, o non vogliono, abbandonare la strada vecchia per la nuova. L’obiezione più ricorrente è : “stravolgere tutto costerebbe troppo”.

Personalmente ritengo che non sia così. Almeno non del tutto.

Il mercato anglosassone, anzi per meglio dire i mercati anglofoni in generale, stanno imparando molto più velocemente dei nostrani a rivedere la propria offerta, a gestire in modo diverso i processi produttivi, a rendere più efficienti le relazioni di comunicazione tra clienti e fornitori, a gestire meglio l’informazione aziendale interna, ad ottimizzare l’allocazione delle risorse umane. Insomma … innovano. E nella nostra era tecnologica queste innovazioni si ripercuotono e parimenti trovano sostegno nella innovazione dell’infrastruttura IT. Piccola o grande che sia. In difetto, qualsiasi sforzo fatto per ottimizzare le marginalità, verrà reso vano.

Il modello del vendor monolitico mostra la corda. La corda non è quella della sua fine, è quella che forma il cappio al quale si appendono i clienti : molte aziende si trovano bloccate in un rapporto per il quale l’esborso di denaro è sempre crescente senza che parimenti venga aumentata l’efficienza tecnologica delle applicazioni offerte. E’ piuttosto ovvio che mi stia riferendo a Microsoft nello specifico. Il modello di lock-in utilizzato è invero molto allettante: date le dimensioni del colosso di Redmond si possono permettere di fare politiche di dump dei prezzi di licenza allettando i clienti con sconti mirabolanti (ho visto offerte con sconti che rasentavano l’85% sul listino) per poi, come è stato in passato e come sarà in futuro, recuperare parte (se non tutti) dei mancati profitti con le renewal subscriptions, le estensioni delle licenze, le software assurances che daranno diritto a ricevere la nuova versione del tal software che aggiungerà forse qualche piccola nuova funzionalità ma sicuramente non sarà tale da giustificare l’aumento del prezzo (basti pensare a Windows Vista : trascurando il mercato home, davvero si pensa che nelle aziende Vista abbia portato qualcosa di nuovo ?). Il tutto con una bella cortina di fumo che ci impedisce di valutare la qualità di quello che si acquista (closed source).

Eppure esiste un altro mondo là fuori. Un mondo spesso molto diverso, al quale però è necessario iniziare a guardare con fiducia per la moltitudine di scelte e di opzioni che è in grado di offrire. Un mondo nel quale il software viene inteso non più come un cespite da ammortizzare i cui costi di sola licenza vanno immobilizzati di anno in anno nei bilanci, quanto piuttosto uno strumento, un servizio, da pagare secondo l’uso e secondo le necessità.

E’ il mondo dell’ Opensource.

Va subito chiarito che OpenSource non significa sempre e necessariamente gratuito. Cadere in questa interpretazione significa, secondo me, commettere un grave errore che si ripercuote su errate valutazioni della affidabilità delle soluzioni proposte (what you get is what you pay for ! Pay nothing … get nothing !). Al contrario gli sviluppatori opensource vendono il loro lavoro, il loro servizio, la loro assistenza alla progettazione della soluzione migliore: il software invece può essere utilizzato liberamente, modificato, modellato secondo le esigenze e salvo rare eccezioni (di sviluppi molto acerbi) garantisce sempre ottime stabilità e performance. Esistono miriadi di soluzioni la’ fuori. E per la stragrande maggioranza di esse non si può dire che potrebbero essere valide alternative ai prodotti closed: sono già valide alternative ai prodotti closed. E coloro che lo hanno capito prima degli altri sono quelli che già beneficiano di sensibili riduzioni dei costi di impianto (anche se controbilanciati da costi di adattamento sia operativo – devo riaddestrare il personale – sia di migrazione), oltre ad aver rotto uno schema di blocco: potranno scegliere in un futuro di cambiare ancora avendo piena disponibilità del software e dei dati da esso gestiti. Possono valutare la soluzione di assistenza migliore: in molti casi, dove il supporto non implica feature-unlock, potranno anche decidere di utilizzare solo la versione libera. Possono partecipare in maniera attiva al miglioramento del software condividendo le migliorie apportate e, soprattutto, godono automaticamente delle migliorie apportate da altri.

Insomma basta aprire la finestra per far entrare una ventata di aria fresca : nuove risorse e nuove motivazioni per l’IT aziendale. Ci vuole solo un po’ di coraggio : i vantaggi andranno sicuramente oltre gli inevitabili piccoli disagi causati dall’inziare a parlare una lingua diversa e, all’inizio, un po’ strana.