Da tempo rifletto sulle fantastiche opportunità offerte dalla rete internet e su come, purtroppo, la rapida evoluzione a cui stiamo assistendo stia, secondo me, portando ad una progressiva, drastica e drammatica schematizzazione di comportamenti, abitudini, e modelli che altro non fanno che chiuderci in una scatola sempre più stretta: tutto il contrario di quell’ ampliamento di orizzonti e di conoscenza che sarebbero auspicabili.

La semplice disponibilità di una connessione in rete, possibilmente in banda larga, viene considerata discrimine essenziale tra i cittadini di serie A e quelli di serie B (digital divide) : a gran voce le associazioni di varia natura protestano il “diritto dell’accesso alla rete” quasi fosse ormai un irrinunciabile diritto della persona, alla stregua del diritto all’istruzione o del diritto alla salute. Ma quello che sfugge, la domanda alla quale sempre meno si riesce, o forse si vuole, dare una risposta è : “Ok … sei connesso alla rete: e adesso cosa ci fai ?”. L’affacciarsi sul web è il primo passo per entrare in un meccanismo che tende a modificare profondamente la nostra percezione del contesto nel quale viviamo producendo, senza dubbio, alcuni effetti positivi, ma, con altrettanta certezza, altrettanti (se non di più) di negativi. Se da un lato possiamo annoverare, tra i benfici offerti dalla rete, l’abbattimento delle distanze fisiche (email, messaggistica, voice-over-ip ecc.), la velocità di interazione con i terzi (che siano privati o pubbliche amministrazioni), l’ampia disponibilità di informazioni reperibili ecc., dall’altro non si possono chiudere gli occhi su effetti indubbiamente negativi come la dipendenza dallo strumento tecnologico, la mancanza di senso critico nell’analisi delle informazioni recuperate, la perdita del senso delle regole, che invece, nel mondo fisico, quello fuori della porta di casa nostra, siamo naturalmente portati a rispettare.

E’ come se, in un certo senso, il mio “io” digitale, che dovrebbe essere inteso come una estensione del mio “io” fisico, stesse invece assumendo connotati autonomi, separati e, molto spesso, in contrasto con gli stessi princìpi ed aspettative che regolano la nostra vita quotidiana. Fenomeni come il social networking (facebook et similia per intenderci) stanno azzerando le differenze tipiche degli esseri umani portandoci ad un livello di confronto esclusivamente basato sul nostro “avatar”: tutti abbiamo la stessa pagina di profilo e le informazioni che decidiamo di rendere pubbliche sono esposte con il medesimo modello, per tutti. E’ come se, dall’oggi al domani tutti ci vestissimo solo con scarpe, pantaloni e camicia e le uniche varianti concesse fossero solo il colore di ciascuno di questi indumenti. Basta questo ad identificarmi, a comprendermi come persona ? E’ davvero sufficiente aderire con un clic ad una petizione on-line per esprimere il mio impegno o interesse in un qualche progetto o causa ? Quale sforzo concreto, che poi è la reale misura del mio interesse in una azione, metto in campo per qualificarmi ?

Ma se l’appartenenza ad una comunità digitale viene spesso derubricata a fenomeno di massa come ad esempio la moda, che dire invece dei contenuti che vengono ricercati e come davvero li utilizziamo ? Ma soprattutto : “abbiamo raggiunto davvero ciò che stavamo cercando oppure siamo stati abilmente guidati su contenuti che qualcuno (o peggio qualcosa) pensa possano essere interessanti per noi ?”. Quanto il modello basato sull’advertising (minuziosamente mirato) ci appiatisce su schemi di consumo piuttosto che su princìpi di libertà di scelta ?

La gara che, sul web, si concretizza nell’apparire sulla primissime pagine dei motori di ricerca, rivela una verità ineluttabile : la ricerca (intesa nella sua accezione più ampia e quindi comprensiva del suo prezzo in termini di sforzi comparativi) muore. Non importa quanto pertinente alla ricerca in esame sia un tal contenuto: conta piuttosto quanto l’editore di quel contenuto abbia “speso” in termini di lavoro e anche di soldi per essere ai primi posti nei motori di ricerca: e se qualcuno ha speso, significa che si aspetta un ritorno almeno pari all’investimento rendendo inevitabile la conclusione per la quale io, utente, in qualche modo sto comprando qualcosa anche se in realtà non me ne rendo conto.

Il fatto che esista un algoritmo, per quanto sofisticato, che regola l’indice del web (costituito ormai quasi monopolicamente in un unico sito) rende evidente come le nostre scelte non siano più libere, quanto piuttosto siano pilotate da un sistema che non sfugge a regole precise, sempre in evoluzione, ma determinate. Diventa quindi sempre più difficile imbattersi in qualcosa di davvero originale, innovativo e inatteso e, soprattutto, incontrato per caso. I risultati proposti sono sempre grossomodo gli stessi, e le attese di rapidità che ci guidano nell’operatività quotidiana, contrastano con la navigazione oltre la terza pagina di una ricerca. E quand’anche desiderassimo seguire un percorso “casuale” saltando di contenuto in contenuto attraversando in modo disorganizzato i link dei siti, ci accorgeremmo immediatamente che la stragrande maggioranza di questi sono pilotati dalla pubblicità, e non certo dal filo logico che un determinato editore voleva esporre nei propri contenuti.

Tutto questo dovrebbe portarci ad una domanda : come misuro l’attendibilità (soprattutto) e la pertinenza delle informazioni che ho trovato ? L’utente medio si adagia nel modello di consumo e le sue limitatissime conoscenze tecnologiche lo portano a non differenziare: poco gli importa come mai il tal risultato è in cima alla lista … gli basta sapere che è il primo e, in quanto tale è il primo su cui clicca. Da qui i disastri cui si assiste in tema di ricerche mediche, giusto per fare un esempio, dove i vincenti sono (quasi sempre) siti dalla dubbia moralità che offrono cure miracolose a prezzi “abbordabili”: quindi vendono !  E l’effetto più grave lo si misura nel fatto che l’attendibilità diventa sinonimo di facilità : “l’ho trovato sul web quindi è vero”. Si ma : quanto hai cercato ? quanti confronti hai fatto ? hai provato anche ad esaminare pareri ed informazioni contrastanti ? La risposta è quasi sempre NO e ci si limita alle primissime occorrenze reperite.

Ma allora come è possibile reclamare la libertà se, di fatto, accettiamo supinamente di rinunciare alla nostra libertà in favore di un programma che sceglie per noi ? Dove sta la libertà in un modello che azzera le nostre differenze ? La merce siamo noi che stiamo davanti ad uno schermo, non illudiamoci di essere padroni di uno strumento che estende le nostre possibilità.

Anzi, veniamo costretti ad adottare comportamenti che spesso contrasterebbero proprio con le stesse regole morali che ci guidano nella vita “fisica”: il pushing verso lo stimolo all’acquisto porta inevitabilmente al fenomeno della pirateria. Dal momento che cercare “alternative” legittimamente gratuite è difficoltoso e spesso (come è inevitabile che sia) “costerebbe” adeguarsi ad un minor livello di funzionalità o di qualità delle soluzioni free, diventa più facile affidarsi all’illegalità per ottenere gratuitamente ciò che non avrei diritto di avere se non pagando: e questo non costituisce certo un principio di libertà.