Frenetiche sono le voci che si rincorrono in queste ore: quelle che avallano l’uccisione del leader del terrorismo internazionale e quelle che, al contrario, fanno di tutto per instillare il dubbio che ciò non sia realmente accaduto, sulla base, prevalentemente, di palesi e tangibili prove.

Come tutti sappiamo dalla versione ufficiale rilasciata dallo stesso presidente americano Barak Obama, il corpo di Binladen è stato deposto in mare. Intuitivamente posso trovare diverse giustificazioni ad una azione del genere: l’intenzione di non voler rendere luogo di pellegrinaggio l’area di custodia del cadavere, il rispetto dei tempi di sepoltura indicati dalla religione Islamica che prevede in 24 ore dalla morte la tumulazione (non sono un esperto in tal senso ma molte letture anche web lo confermano) e, di conseguenza, la dimostrazione di buona volontà da parte degli americani nel non voler accendere ulteriori frizioni con il mondo Islamico; il rifiuto di voler esporrre Binladen come un trofeo di caccia e di conseguenza farne un martire della Jihad più di quanto il suo stesso nome e le sue azioni non abbiano già fatto.

Insomma, vi sono, oggettivamente, una serie di motivazioni, tutte plausibili, che portano a comprendere la validità di questo gesto. Comprensione che si raggiunge però solo nel caso in cui l’osservatore si pone in posizione terza di fronte agli eventi e riesce ad inquadrare con lucidità le implicazioni che la cattura e l’uccisione di un personaggio così delicato per gli equilibri tra culture diverse hanno nei confronti del contesto politico internazionale.

Al contrario, i teorici del complotto adottano un punto di vista completamente di parte: il mondo occidentale nega che l’uccisione si sia effettivamente verificata perchè mancano le prove schiaccianti che lo possano dimostrare. Probabilmente avrebbero preferito una pubblica gogna dei resti per soddisfare un malcelato desiderio di vendetta nella quale poter vedere una loro “giustizia” risarcitrice. Come pure, nel mondo vicino ad Al Qaeda, si nega l’accaduto per poter dare continuità ad un progetto terroristico che vive di simboli e di eroismi (a modo loro) e che ha bisogno di riferirsi, se non per la parte organizzativa, almeno ad una figura leader di forte impatto carismatico.

In entrambi i casi si tratta, come dicevo, di una visione della “propria parte”, una mancanza di “soddisfazione” negli eventi appena occorsi che porta a due condizioni: da un lato la speranza che nuovi futuri sviluppi diano migliore e più forte risposta alle proprie attese e dall’altro la convinzione che la verità venga nascosta per scopi che possano risultare perfino più oscuri del terrorismo stesso. E l’unica conseguenza a cui porta questo paradosso mentale è la paranoia e, a seguire, la paura.

Personalmente plaudo all’iniziativa degli americani che con il loro gesto hanno dimostrato di voler rifiutare l’accanimento mediatico a svilimento del “vinto” e, probabilmente, riusciranno a stabilire nuove e più corrette relazioni “diplomatiche” (per quanto sia difficile parlare di diplomazia quando in campo ci sono organizzazioni fuori legge ed extra-territoriali) alla ricerca di una via d’uscita dalla condizione di terrore in cui Al Qaeda ha voluto tenere l’occidente.